
La sindrome del colon irritabile, o sindrome dell’intestino irritabile (SII) – spesso indicata con l’acronimo inglese IBS (Irritable Bowel Syndrome) – è un disturbo funzionale intestinale cronico molto comune e diffuso, le cui stime di prevalenza nella popolazione variano, ma che si aggirano intorno al 10-20%.
Colpisce prevalentemente le donne (2-3 volte più comune rispetto agli uomini), in particolare nella fascia di età tra i 20 e i 50 anni.
Questa condizione può compromettere in modo significativo la vita quotidiana, inclusa la sfera sociale, lavorativa e affettiva, influenzando negativamente la qualità della vita, soprattutto a causa dei sintomi a esso associati, che tendono a manifestarsi in attacchi ricorrenti, con intensità e frequenza variabili nel tempo.
Indice dei Contenuti
Quali sono le possibili cause e i fattori scatenanti?
Come accennato prima, la sindrome del colon irritabile è un disturbo funzionale intestinale cronico le cui cause esatte non sono ancora completamente note. È considerata, infatti, una patologia complessa che rientra nel gruppo dei disordini funzionali gastrointestinali, caratterizzati dall’assenza di un danno organico rilevabile.
Semplificando, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe.
La sua genesi è considerata multifattoriale, frutto di una combinazione di fattori fisiologici e psicosociali. In effetti, qualsiasi fattore ambientale, fisico, infettivo o psicologico può attivare il Sistema Nervoso Enterico (SNE) e causare o aggravare i sintomi.
Tra le possibili cause e i fattori di rischio che contribuiscono o scatenano i sintomi dell’IBS, i più comuni sono:
- ipersensibilità viscerale: un’aumentata sensibilità alla distensione della parete intestinale (iperalgesia viscerale) è una delle alterazioni più frequentemente riscontrate nei pazienti con IBS. Questo significa che le persone affette percepiscono come dolorose o fastidiose contrazioni o distensioni intestinali che normalmente non verrebbero avvertite;
- alterazioni della motilità intestinale: possono verificarsi cambiamenti nella velocità con cui il cibo si muove nell’intestino. Questo può manifestarsi come un transito rallentato associato a stipsi o un transito accelerato associato a diarrea. Un riflesso gastrocolico esagerato (risposta contrattile del colon al pasto) può causare fastidio postprandiale;
- alterazioni del microbiota intestinale: la flora batterica presente nell’intestino gioca un ruolo importante, e le sue alterazioni sono sempre più considerate rilevanti nella patogenesi della sindrome;
- interferenza nell’asse cervello-intestino: esiste una complessa relazione tra il cervello e l’intestino, ormai sempre più studiata. Il cervello, tramite mediatori nervosi e neuroendocrini, può modificare la funzionalità, la motilità, la secrezione e la percezione del dolore intestinale, e viceversa un’alterazione della funzione intestinale o del microbiota può condizionare lo stato d’animo. Per questo motivo si ritiene, ad esempio, che l’ansia sia un fattore scatenante;
- infezioni intestinali: in alcuni casi, la sindrome del colon irritabile può insorgere in seguito a un episodio di infezione intestinale, anche se guarita, poiché può lasciare un’alterazione funzionale dell’intestino e del microbiota;
- fattori dietetici: sebbene non ci siano cibi che causano la condizione, alcuni alimenti possono peggiorare i sintomi in individui predisposti. Come vedremo più nel dettaglio, particolare attenzione è posta sugli alimenti FODMAP, carboidrati fermentabili scarsamente assorbiti nel piccolo intestino e rapidamente fermentati dal microbiota nel colon. Questo processo produce gas e richiama acqua per effetto osmotico, causando distensione e scatenando i sintomi, specialmente in presenza di ipersensibilità viscerale. Altri cibi che possono favorire l’insorgenza dei sintomi o peggiorarli sono quelli ricchi di grassi, speziati o troppo lavorati, l’alcol, la caffeina, e le bevande gassate;
- fattori psicosociali: il disagio psicologico, come disturbi d’ansia o depressione, è comune tra i pazienti. Situazioni ad elevato impatto emotivo o problemi psicologici irrisolti, inclusa la possibilità di violenze, possono essere rilevanti;
- fattori ormonali: le fluttuazioni ormonali possono interferire con l’attività intestinale, in particolare nelle donne;
- storia familiare: la presenza di più casi nella stessa famiglia è considerata una delle ipotesi;
- acidi biliari: nelle forme di SII con diarrea, un’eccessiva quantità di acidi biliari che raggiungono il colon a causa di un riassorbimento inadeguato nell’intestino tenue può irritare il colon e causare scariche diarroiche.
Individuare le possibili cause consente di intervenire sui fattori di rischio e di delineare un percorso terapeutico adeguato.
Sintomi e diagnosi
Come si fa a capire se si soffre della sindrome del colon irritabile? Questa condizione è caratterizzata da una serie di sintomi che tendono a manifestarsi in attacchi ricorrenti e con intensità variabile nel tempo.
Sintomi
I sintomi principali, spesso utilizzati anche per la diagnosi clinica secondo i cosiddetti “Criteri di Roma”, sono i seguenti:
- fastidio o dolore addominale ricorrente: questo dolore è spesso descritto come crampiforme, tipicamente localizzato all’addome inferiore. Una caratteristica importante per la diagnosi è che il dolore è legato alla defecazione e di solito peggiora dopo i pasti e migliora con l’evacuazione;
- alterazioni dell’alvo (cambiamenti nella frequenza e/o nella consistenza delle feci): queste alterazioni possono manifestarsi come:
- diarrea;
- stipsi (stitichezza);
- alternanza tra stipsi e diarrea (forma mista);
- cambiamento nella frequenza delle evacuazioni (aumento nella variante diarroica, diminuzione nella variante stitica);
- cambiamento nella consistenza delle feci (liquide/cremose o molto dure)
Questi cambiamenti nella frequenza o nella consistenza delle feci, insieme alla relazione del dolore con la defecazione, sono i criteri fondamentali per la diagnosi.
Altri sintomi comuni associati alla SII sono:
- gonfiore addominale (o meteorismo), distensione o sensazione di addome duro;
- sintomi correlati all’atto dell’evacuazione: sforzo, urgenza o sensazione di evacuazione incompleta;
- eccessiva emissione di gas (flatulenza);
- presenza di muco nelle feci;
- stanchezza e mancanza di energia;
- nausea;
- problemi urinari, come stimolo frequente ad urinare o sensazione di non svuotare completamente la vescica;
- sintomi da cattiva digestione;
- mal di schiena;
- fibromialgia;
- disturbi del sonno.
Diagnosi
L’analisi dei sintomi è centrale nella diagnosi della condizione, che ricordiamo essere sostanzialmente clinica, anche perché, come già spiegato, non è presente alcun danno agli organi.
È fondamentale che il medico escluda altre condizioni mediche che potrebbero presentare sintomi simili, soprattutto in presenza di alcuni “segnali d’allarme”, tra cui i seguenti:
- perdita di peso ingiustificata;
- sanguinamento rettale;
- anemia (in particolare anemia sideropenica);
- esordio dei sintomi in età avanzata (sopra i 50 o 60 anni);
- storia familiare di cancro del colon, malattia infiammatoria intestinale o celiachia;
- diarrea notturna;
- masse addominali o rettali;
- marker di malattia infiammatoria intestinale elevati.
Esami
L’esame obiettivo include la palpazione dell’addome per cercare gonfiore o masse e un’esplorazione rettale con ricerca del sangue occulto.
Gli esami strumentali o di laboratorio non servono a confermare la diagnosi, ma sono utilizzati principalmente per escludere altre patologie. I più comuni sono:
- emocromo completo;
- profilo biochimico di base, inclusi esami epatici;
- test per la celiachia;
- test per le malattie infiammatorie intestinali, come la calprotectina o lattoferrina fecale e la proteina C-reattiva, solitamente bassi nella SII;
- misurazione dei livelli dell’ormone stimolante la tiroide (TSH) e di calcio, specialmente in caso di stipsi;
- esame delle feci per escludere infezioni o parassiti;
- VES.
Test come l’ecografia, la sigmoidoscopia, la colonscopia o il clisma opaco non sono generalmente necessari per confermare la diagnosi di SII. La colonscopia è raccomandata per i pazienti di età superiore ai 45 anni (o >60 in alcuni contesti) per escludere polipi o tumori.
Come curare la sindrome del colon irritabile?
Purtroppo, ad oggi non esiste una cura definitiva per la sindrome del colon irritabile, di conseguenza si mira al controllo dei sintomi attraverso modifiche dello stile di vita, della dieta e, se necessario, l’uso di farmaci.
- Modifiche dello Stile di Vita:
- fare attività fisica regolare può aiutare a ridurre lo stress e migliorare la funzione intestinale, specialmente in caso di stipsi;
- tecniche di rilassamento, meditazione o la gestione dello stress sono consigliate, poiché lo stress può aggravare i sintomi;
- non fumare.
- terapia farmacologica: la scelta dei farmaci dipende dai sintomi predominanti:
- per la diarrea predominante, si possono usare farmaci che rallentano la motilità intestinale;
- per la stipsi predominante, oltre a fibre e liquidi, si possono usare lassativi o farmaci che aumentano la motilità intestinale sotto controllo medico;
- per il dolore addominale, si possono usare antispastici al bisogno. Gli antidepressivi triciclici possono essere considerati come trattamento di seconda linea, con dosaggi bassi. Se non sono efficaci, si possono considerare gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI);
- terapie psicologiche: per i pazienti che non rispondono ai trattamenti per 12 mesi (IBS refrattaria), si possono considerare interventi psicologici come la terapia cognitivo-comportamentale, l’ipnoterapia o la psicoterapia.
Un ruolo particolarmente rilevante nel trattamento della sindrome del colon irritabile è l’alimentazione.
Dieta per pazienti con sindrome del colon irritabile
Iniziamo col dire che non esiste una singola dieta valida per tutti i pazienti. In genere, si consiglia una dieta libera, ma si devono evitare i cibi considerati scatenanti (che possono variare di paziente in paziente). Per individuarli, può essere molto utile tenere un diario alimentare.
Inoltre, si raccomanda di:
- fare pasti regolari e dedicare un tempo adeguato al pasto, evitando di saltare i pasti o fare lunghe pause;
- mangiare lentamente;
- evitare o limitare cibi ricchi di grassi (soprattutto saturi), cibi speziati o troppo elaborati, alcol, caffeina (tè, caffè, bibite gassate, cioccolato), e bevande gassate;
- bere molta acqua (almeno 1.5-2 litri al giorno), specialmente in caso di diarrea, per evitare la disidratazione, e in caso di stipsi, per ammorbidire le feci;
- regolare l’assunzione di fibre. Per la stipsi, aumentare le fibre nell’alimentazione, preferendo quelle fibre solubili (come quelle nell’avena). Per la diarrea, invece, a volte è meglio limitare le fibre, in particolare quelle insolubili.
Spesso i medici prescrivono una dieta a basso contenuto di FODMAP.
Cos’è la dieta FODMAP?
La dieta FODMAP – acronimo di Fermentable Oligosaccharides, Disaccharides, Monosaccharides, and Polyols. In italiano, si riferisce a oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli fermentabili – è un regime alimentare che mira a ridurre l’assunzione di specifici tipi di carboidrati fermentabili.
Rientrano nei FODMAP:
- fruttosio, presente in frutta, miele, sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio;
- lattosio, presente nel latte e in altri latticini;
- fruttani e galattani (tipi di oligosaccaridi), presenti in grano, cipolle, aglio, orzo, cavolo, broccoli, legumi, fagioli, carciofi, asparagi, barbabietole, cavolini di Bruxelles, finocchio, pomodoro, porri, sedano, segale, ceci, lenticchie, fave, pesche bianche, cachi);
- polioli (come sorbitolo, mannitolo, maltitolo, xilitolo e isomalto, presenti in alcune verdure e frutta come mele, albicocche, ciliegie, pere, pesche, susine, prugna, anguria, avocado, cavolfiori, funghi, piselli, sedano, nonché nei dolcificanti artificiali.
Sono, invece, alimenti Low-Fodmap, ovvero a basso contenuto di queste sostanze:
- Frutta: banana matura, mirtillo, pompelmo, uva, melone, kiwi, limone, mandarino, arancia,lampone, fragola;
- sostitutivi del miele: sciroppo d’acero;
- dolcificanti: tutti eccetto i polioli;
- latte: latte delattosato, di soia, di riso;
- formaggi: formaggi duri e stagionati;
- sostituti del gelato: sorbetti;
- burro;
- verdure: germogli di bambù, sedano, peperoni, melanzane, fagiolini, lattuga, erba cipollina, zucca, cipolla verde, pomodoro;
- cereali: prodotti senza glutine e farro.
Riportiamo di seguito una tabella contenuta nell’articolo “Dieta Low-FODMAP. Di cosa parliamo? Solo per l’intestino irritabile?” pubblicato sulla Rivista Società Italiana di Medicina Generale.

Come funzionano i FODMAP e perché influenzano la sindrome del colon irritabile?
I FODMAP sono carboidrati che vengono scarsamente assorbiti nel piccolo intestino, a causa di meccanismi di trasporto lenti o di un’attività enzimatica ridotta. Di conseguenza, raggiungono il colon, dove vengono rapidamente fermentati dalla flora batterica (microbiota).
Questo processo di fermentazione produce gas e richiama acqua per effetto osmotico nel lume intestinale, e ne provoca una sua distensione, che a sua volta attiva il sistema nervoso enterico ipereccitabile del paziente, scatenando o aggravando i sintomi tipici come dolore, gonfiore addominale e alterazioni dell’alvo (stipsi o diarrea).
La fermentazione dei FODMAP avviene in modo simile sia nei soggetti sani che in quelli con IBS; la differenza sta nel fatto che i sani non percepiscono disturbi, mentre i pazienti con IBS sì, a causa della loro ipersensibilità viscerale.
La Dieta Low-FODMAP come trattamento
La dieta Low-FODMAP è stata proposta come strategia terapeutica per la sindrome del colon irritabile. Non è una dieta di esclusione definitiva, ma di sostituzione, finalizzata a identificare quali alimenti specifici scatenano i sintomi nel singolo paziente e in quale quantità sono tollerati.
Il percorso della dieta Low-FODMAP si articola generalmente in tre fasi:
- Fase di restrizione: prevede una forte riduzione o eliminazione dei cibi ad alto contenuto di FODMAP per un periodo limitato, solitamente 3-6 settimane. L’obiettivo è ottenere un rapido miglioramento dei sintomi;
- Fase di reintroduzione: prevede la reintroduzione progressiva di singoli alimenti contenenti FODMAP (uno o più volte a settimana) per testare la soglia di tolleranza del paziente e identificare i tipi e le quantità di cibo tollerati senza causare disturbi. Questa fase può durare 8-12 settimane;
- Fase di personalizzazione: sulla base delle informazioni raccolte nella fase di reintroduzione, viene impostata una dieta personalizzata a lungo termine, che il paziente potrà gestire in autonomia, mantenendo l’equilibrio tra i cibi ricchi di FODMAP tollerati e l’evitamento degli altri.
Numerosi studi hanno confermato che la riduzione dei FODMAP nella dieta è efficace nel migliorare i sintomi della SII, in particolare il dolore e il gonfiore addominale, ma anche le alterazioni dell’alvo (sia diarrea che stipsi). Può anche migliorare lo stato psicologico.
È fortemente raccomandato intraprendere questa dieta sotto la guida di un esperto (medico, dietologo o nutrizionista), che può aiutare a personalizzare la dieta in base alle abitudini e preferenze del paziente, garantire un adeguato apporto nutrizionale e di fibre, e guidare correttamente le fasi di eliminazione e reintroduzione.
Domande frequenti (FAQ)
La sindrome del colon irritabile (o dell’intestino irritabile, IBS) è un disturbo funzionale intestinale cronico molto comune che colpisce circa il 10-20% della popolazione adulta, prevalentemente donne tra i 20 e i 50 anni. È caratterizzata da dolore o fastidio addominale ricorrente associato ad alterazioni delle abitudini intestinali e può compromettere significativamente la qualità della vita. Non si riscontrano danni organici evidenti.
I termini “sindrome dell’intestino irritabile” (SII) e “sindrome del colon irritabile” vengono utilizzati in modo intercambiabile per riferirsi alla stessa condizione. L’acronimo inglese con cui è spesso identificata è IBS, che sta per Irritable Bowel Syndrome. Si tratta della medesima patologia funzionale cronica dell’apparato gastrointestinale.
La sindrome dell’intestino irritabile viene spesso definita impropriamente “colite”. A differenza della colite vera e propria, che implica un’infiammazione o un danno organico rilevabile, l’IBS è un disturbo funzionale caratterizzato dall’assenza di un danno strutturale. I sintomi possono essere simili, ma la causa e la diagnosi differenziale sono distinte.
Le cause esatte non sono del tutto note, ma si ritiene che l’IBS sia un disturbo multifattoriale legato all’interazione intestino-cervello. Fattori che contribuiscono includono l’ipersensibilità viscerale (aumentata percezione del dolore), alterazioni della motilità intestinale, cambiamenti nel microbiota intestinale, fattori psicologici (stress, ansia), infezioni intestinali pregresse e fattori dietetici, in particolare i carboidrati fermentabili (FODMAP).
I sintomi principali includono dolore o fastidio addominale ricorrente (spesso crampiforme e localizzato all’addome inferiore), tipicamente legato alla defecazione. Si associano alterazioni dell’alvo, che possono manifestarsi come diarrea, stitichezza o un’alternanza delle due. Altri sintomi comuni sono gonfiore addominale (meteorismo), sensazione di evacuazione incompleta, urgenza e muco nelle feci.
Il dolore o il fastidio addominale tipico della sindrome dell’intestino irritabile è generalmente localizzato all’addome inferiore. Può manifestarsi come crampi ed essere diffuso. La palpazione addominale può rilevare una dolorabilità, in particolare nel quadrante inferiore sinistro.
La diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile è principalmente clinica. Si basa sull’analisi dei sintomi riportati dal paziente, confrontandoli con criteri specifici (come i Criteri di Roma). Per escludere altre condizioni simili o più gravi, soprattutto in presenza di “segnali d’allarme” (es. perdita di peso, sangue nelle feci, età avanzata all’esordio), possono essere richiesti esami del sangue di base, test per la celiachia, marcatori infiammatori fecali o del sangue, e test tiroidei. Esami più invasivi come la colonscopia non sono di routine, ma possono essere raccomandati in presenza di segnali d’allarme o per pazienti sopra una certa età.
La diarrea nell’IBS è un’alterazione della frequenza e/o consistenza delle feci che si manifesta in un quadro sintomatologico tipico. Un aspetto distintivo è il legame tra il dolore/fastidio addominale e l’atto della defecazione, che spesso porta a un miglioramento dei sintomi. La diagnosi viene fatta dal medico sulla base del modello sintomatologico complessivo e dopo aver escluso altre possibili cause di diarrea.
Non esiste una cura definitiva per l’IBS, ma il trattamento mira a controllare i sintomi. Le strategie includono modifiche dello stile di vita (attività fisica, gestione dello stress) e interventi dietetici, come l’identificazione ed evitamento dei cibi scatenanti, l’assunzione di fibre e un’adeguata idratazione. Se necessario, si ricorre alla terapia farmacologica mirata al sintomo predominante (es. antispastici, antidiarroici, lassativi, antibiotici specifici). In casi refrattari, possono essere considerate terapie psicologiche.
Non esiste una dieta universale per tutti, ma si raccomanda di identificare i cibi tollerati individualmente. Alcuni alimenti generalmente meglio tollerati includono uova, carni magre e pesci ricchi di omega-3. Molti pazienti traggono beneficio da una dieta a basso contenuto di FODMAP, che include verdure come melanzane, zucchine, carote, lattuga, pomodori e frutta come banana matura, mirtilli, arancia, kiwi. Altri alimenti consigliati sono cereali senza glutine o a base di riso/mais/quinoa/grano saraceno, formaggi stagionati o duri, e latte/derivati delattosati. È importante personalizzare la dieta, spesso con il supporto di un esperto.
È utile evitare o limitare gli alimenti che scatenano o peggiorano i sintomi. I FODMAP sono frequenti responsabili. Tra questi, latte e latticini freschi (per il lattosio), alcuni tipi di frutta (mele, pere, anguria, pesche) e verdura (broccoli, cavoli, cipolle, aglio, legumi), cereali contenenti fruttani (es. grano, segale). Anche cibi ricchi di grassi, speziati, troppo elaborati, bevande alcoliche, caffeina (caffè, tè, bibite gassate) e dolcificanti come il sorbitolo possono peggiorare i disturbi.
La caffeina (presente nel tè, caffè, bibite gassate, cioccolato) può scatenare o aggravare i sintomi nella sindrome dell’intestino irritabile. Per questo, le raccomandazioni per i pazienti con IBS includono generalmente l’evitare o limitare le bevande contenenti caffeina.
Il pane a base di grano contiene fruttani, che sono FODMAP e possono scatenare sintomi. Si suggerisce di limitare il consumo di cereali come frumento e segale. Tuttavia, i prodotti senza glutine e a base di farro sono elencati tra i cereali a basso contenuto di FODMAP che possono essere meglio tollerati. Anche cereali come riso, mais, quinoa e grano saraceno sono considerate opzioni migliori.
Sì, molte verdure tipicamente usate nelle insalate sono considerate a basso contenuto di FODMAP e ben tollerate, come la lattuga, i pomodori, le carote, i cetrioli e i peperoni.
La sindrome dell’intestino irritabile è una condizione cronica, i cui sintomi possono durare giorni, settimane o mesi e tendono a persistere nel tempo. Non esiste una cura definitiva. Il trattamento mira a gestire e controllare i sintomi nel lungo periodo attraverso modifiche dietetiche, dello stile di vita e, se necessario, farmaci. La dieta low-FODMAP, ad esempio, è un percorso temporaneo (fase di eliminazione 3-6 settimane, reintroduzione 8-12 settimane) per identificare cibi scatenanti e impostare una dieta personalizzata a lungo termine.