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Sanità, Welfare e fondi integrativi: “Investire sulle persone fa bene al Paese”

La nostra intervista a Franca Maino, Direttrice Scientifica di Percorsi di secondo welfare. Intro. 

Leonardo Degli Antoni, Direttore Responsabile di ASIM Informa, ha intervistato Franca Maino, Direttrice Scientifica di Percorsi di secondo welfare e Professoressa associata presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, in merito al ruolo dei fondi di assistenza sanitaria integrativa e del cosiddetto secondo pilastro sanitario integrativo.

Professoressa Franca Maino, lei è Direttrice Scientifica di Percorsi di secondo welfare e si occupa di tematiche che sono centrali per la vita di tutti noi. Quali sono le criticità del Sistema Sanitario Nazionale? È solo un problema di scarso finanziamento?

È un problema di finanziamento, ma non solo. Negli ultimi vent’anni è mancato un investimento sulla sanità. Dopo le importanti riforme degli Anni ’90 siamo ancora in attesa di una riforma strutturale del nostro sistema sanitario che intervenga su tutte le sue criticità. Si è rinunciato a farlo e si è operato attraverso continui aggiustamenti, ma disinvestendo sulla sanità poiché non se ne coglieva il potenziale. Ma ha una grande rilevanza sulle persone, perché la salute è un rischio e un bisogno che riguarda tutti. Quindi il nostro Paese, come qualunque Paese, deve essere attrezzato con un sistema sanitario efficace ed efficiente. Inoltre, la sanità è un motore di crescita, sviluppo e occupazione (come sottolinea anche un recente Rapporto Censis) e quindi investire in questo ambito porta benefici al Pil. Invece di tagliare bisognerebbe investire.

Quindi siamo al tema degli investimenti. E poi?

Poi ci sono altri problemi, come il fatto che si è disinvestito sul personale e il sistema fa una grande fatica ad andare avanti perché mancano i lavoratori nelle strutture ospedaliere e nei Presidi territoriali. Ciò mette in discussione l’accesso al sistema sanitario. Il nostro è un Servizio Sanitario Nazionale, quindi il criterio è quello della cittadinanza e tutti dovrebbero averne accesso. In realtà questo non avviene: le liste d’attesa sono troppo lunghe e dobbiamo anche recuperare le visite che non sono state fatte durante gli anni dell’emergenza pandemica, perché gli ospedali erano luoghi in cui si rischiava di contagiarsi e di ammalarsi. Inoltre, molti reparti erano stati riconvertiti per curare chi aveva il Covid-19, perciò molti hanno rinunciato alle cure meno urgenti. Ora c’è un ritardo che allunga ancora di più i tempi di attesa e di accesso. L’ultimo problema, ma non meno importante, è la contrapposizione tra una sanità ospedaliera e una territoriale. In questi anni ci si è occupati della prima, ma non della seconda. La sfida è riuscire a farle lavorare insieme. Il ritardo nell’attuazione del Pnrr rischia di mettere in discussione questo disegno: dalla nascita delle Case della comunità, agli ospedali di comunità, insomma tutti i nuovi presidi per rafforzare dal basso la capacità di rispondere ai bisogni di salute.

Il Covid-19 ha messo sotto pressione il nostro SSN, evidenziandone i limiti. Che lezioni ci ha lasciato la pandemia, cosa bisognerebbe migliorare e come?

La pandemia ha messo in luce la debolezza del nostro Paese e del nostro sistema sanitario di fronte alle emergenze. Come detto, noi abbiamo sempre investito poco sulla prevenzione, dandogli una scarsa attenzione da un punto di vista medico e specialistico ma anche organizzativo. Ciò ha fatto sì che fossimo impreparati, o più impreparati di altri Paesi, nell’affrontare la pandemia. Su questo aspetto l’Italia deve imparare ancora molto. Non vedo segnali forti e significativi che ci rassicurino rispetto ad altri eventi che sicuramente, come dicono gli esperti, succederanno ancora in futuro. Il Covid-19 non è stato un caso isolato. L’altro tema è quello già accennato, la debolezza dei presidi territoriali. Bisogna agire il più efficacemente possibile offrendo dei luoghi, degli spazi, presidi dove le persone possano trovare delle risposte prima che la loro malattia diventi acuta. Deve ovviamente continuare l’investimento sugli ospedali come luoghi in cui si affronta la malattia acuta. Tuttavia, se pensiamo alle trasformazioni demografiche, al processo di invecchiamento della popolazione e di allungamento della vita, dobbiamo aspettarci che nei prossimi anni crescerà da un lato la sfida della cronicità, dall’altro quella della multimorbilità. Quindi servono dei punti più leggeri nei quali affrontare le situazioni prima che diventino un problema conclamato. E oggi non sono sufficienti e non sono capillarmente distribuiti nei territori.

Sanità e sociale sembrano quasi due mondi separati.

Questo infatti è un altro problema. C’è un tema di scarsa integrazione tra sanitario e sociale. Le Case della comunità hanno esattamente questo come obiettivo. Sono anni che si discute su come integrare la sanità con il sociale, un elemento già ribadito nel 2000 con la legge quadro 328, ma che si fa ancora molta fatica ad attuare. È quindi importante che questi due settori così significativi lavorino insieme.

I fondi di assistenza integrativa sono strumenti adeguati a fronteggiare le mancanze del Sistema Sanitario Nazionale?

I fondi e le casse possono essere un punto di forza nella misura in cui sono esito della contrattazione o frutto di una gestione bilaterale. Si tratta quindi di sviluppare una sanità integrativa di secondo livello e collettiva, che abbia una logica aggregativa rispetto ai bisogni. Questi due elementi, se si integrano con la sanità pubblica che non deve venire meno, sono un fronte importante. Quello che preoccupa è lo sviluppo della sanità privata (ndr. le assicurazioni mediche) che propone alle persone fondi o coperture individuali. 

In realtà questo sistema c’è in molti Paesi.

Sì, la sanità integrativa è presente in tutti i Paesi, anche se il grado di diffusione varia da contesto a contesto. Uno degli aspetti più importanti da considerare è il grado di integrazione rispetto alla sanità pubblica. Tornando all’Italia, il problema nasce dal fatto che la sanità integrativa supplisce alle mancanze del sistema pubblico e spesso duplica gli interventi. Si tratta quindi di potenziare un secondo pilastro integrativo – di natura collettiva – che sia in grado di favorire l’integrazione e non la duplicazione o la sostituzione perché altrimenti si alimentano le diseguaglianze tra chi si può permettere la polizza e ha accesso a prestazioni e servizi e chi non può farlo e rimane in lista d’attesa, senza riuscire ad accedere alle cure di cui ha bisogno. Occorre sviluppare un secondo pilastro sanitario integrativo, come quello dei Paesi con un sistema di welfare più maturo, facendo lavorare insieme la sanità pubblica e quella integrativa. Il fatto che i fondi e le casse siano esito della contrattazione o frutto di una gestione bilaterale significa che entra in gioco il mondo delle imprese, il sistema produttivo, e si valorizza la negoziazione tra le parti sociali. La responsabilità di chi gestisce le casse e i fondi sanitari deve essere quella di non duplicare le prestazioni, ma usare bene i fondi raccolti. Tra i protagonisti di questo settore ci sono anche le società di mutuo soccorso che hanno una tradizione di mutualismo, di cooperazione e di attenzione ai bisogni che non lascia nessuno escluso.

Viviamo nell’epoca della tecnologia: come può essere impiegata in ambito sanitario e che supporto può fornire alle fasce di popolazione più fragili?

Sotto il profilo della digitalizzazione del sistema sanitario la pandemia ha dato una forte accelerazione. Non è stato ancora colmato il gap che abbiamo con altri Paesi, ma abbiamo fatto un salto in avanti. Prima di tutto, oggi siamo meno preoccupati e meno critici rispetto al contributo che la tecnologia può dare anche in ambito sanitario. Questo è importante. Durante la fase più critica della pandemia siamo stati costretti a usare strumenti digitali. Penso al rapporto tra medico e paziente, alle prescrizioni che venivano inviate via e-mail e così via. Ciò ha permesso di fare tutto più rapidamente e di utilizzare sempre di più e sempre meglio il fascicolo sanitario elettronico. Sono cresciute le sperimentazioni della telemedicina, del telesoccorso e del telecontrollo. Inoltre, grazie al Pnrr, alla Missione 1 e alla 6, ora le strutture sanitarie (sia a livello nazionale sia regionale) devono intervenire e fare ricorso a strumenti che mettono al centro la digitalizzazione. Non è il fine, ma è un mezzo importantissimo. Con il Covid-19 abbiamo aperto una porta, ora dobbiamo percorrere la strada che abbiamo davanti, nonostante il ritardo che ci contraddistingue non sia facile da colmare e ci siano ancora delle resistenze al cambiamento. 

Che cosa intende?

Penso ad esempio al tema della privacy e a quello dell’interoperabilità tra le banche dati che permettono di “accompagnare” il paziente. Il nostro è un Servizio Sanitario Nazionale al quale le persone possono accedere ovunque si trovino. Per questo è fondamentale riuscire a mettere in relazione i flussi di dati, affinché qualunque medico sia in grado di avere una visione il più possibile completa della storia sanitaria del paziente. Per tornare ai fondi, se si svilupperà sempre di più anche il pilastro integrativo, dobbiamo porci il problema dell’interoperabilità tra le banche dati gestite dal sistema sanitario pubblico e quelle gestite dalle casse e dai fondi.

Considerando l’invecchiamento della popolazione e il fatto che l’aspettativa di vita più lunga non significa sempre un’esistenza in piena salute, quali sono i nuovi bisogni in tema di Sanità e di Welfare?

Il processo di allungamento della speranza di vita dovrebbe portare l’Italia ad affrontare il nodo dell’invecchiamento della popolazione considerandolo non solo un problema, ma anche un’opportunità. Si parla sempre più di longevità e non solo di invecchiamento, perché si può vivere a lungo e in buona salute o comunque riuscendo ad affrontare i problemi di multimorbilità, di cronicità, ritardando il più possibile l’insorgere di situazioni invalidanti che rendono le persone non autosufficienti. Per rendere ciò possibile bisogna lavorare preventivamente. Ci serve quindi un sistema sanitario che operi in stretta sinergia con l’ambito sociale, per guardare alla longevità come una grande opportunità. Affinché le persone invecchino bene e sperimentino il più a lungo possibile una situazione di benessere, nonostante gli acciacchi e i problemi che arrivano con la vecchiaia. Ci servono tanti servizi che tengano attive le persone e che li mettano in relazione tra loro, perché il tema della socialità aiuta ad affrontare il rischio di perdita dell’autonomia cognitiva. Stiamo parlando dell’Alzheimer, della demenza senile, del Parkinson. C’è ancora moltissimo da fare in termini socio-sanitari rispetto al supporto per le persone affette da queste patologie.

A proposito di non autosufficienza, qual è la situazione del nostro Paese attualmente?

Ci sono già circa 4 milioni di anziani che sono in una situazione di non autosufficienza, chi più grave chi meno. A marzo, grazie al Pnrr che aveva previsto tra i suoi milestone una riforma, è stata approvata la Legge 33 del 2023 che per la prima volta introduce in Italia un sistema nazionale di assistenza anziani. L’approvazione dei decreti attuativi di questa legge è attesa per l’inizio del 2024. Qui si apre certamente la possibilità di far crescere il sistema dei servizi e delle prestazioni per una parte così importante della popolazione. Basta considerare il fatto che oggi gli over 65 rappresentano il 23% degli italiani. Da qui al 2040-2050 un terzo della popolazione avrà più di 65 anni, quindi è su di loro che bisogna investire.

Cambiamo discorso e parliamo di caregiver. Queste persone faticano sempre di più a conciliare la vita privata con le responsabilità di cura e la vita lavorativa. Le aziende possono aiutarli in qualche modo?

Il sistema sanitario e il sistema sociale non possono occuparsi di tutti i problemi di una persona in condizione di fragilità e di non autosufficienza. Questo vale per tutti i Paesi, non solo il nostro. Quindi la figura del caregiver è un aiuto fondamentale. Stiamo notando che le aziende sono sempre più attente al ruolo che i propri dipendenti svolgono in quanto caregiver. Non c’è solo la funzione di genitori nei confronti dei minori, i lavoratori devono occuparsi anche dei loro padri e madri, perché questi invecchiano. Le aziende stanno predisponendo una serie di misure che danno un po’ di sollievo e aiuto. Come i permessi aggiuntivi, il tema del disbrigo delle pratiche, gli sportelli informativi. Insomma, nelle aziende c’è una crescente attenzione a questo ruolo e nel pacchetto di welfare, sempre più spesso, sono previste anche delle forme d’aiuto che vanno oltre la legge 104, la misura con cui i lavoratori possono chiedere dei permessi. Tuttavia, anche in questo caso, c’è ancora tanto da fare. E bisognerà fare sempre di più promuovendo alleanze virtuose tra imprese e organizzazioni del Terzo settore per sviluppare iniziative territoriali a sostegno dei caregiver familiari.

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