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«Stili di vita sani e costanza: i miei ingredienti per stare bene» (e vincere ori e argenti)

Benessere, inclusione e sfide di ogni giorno. Arianna Talamona, classe 1994, campionessa del mondo di nuoto paralimpico nel 2019 e vincitrice di una medaglia d’argento alle paralimpiadi di Tokyo 2020, racconta senza mai perdere il sorriso la malattia che l’accompagna da sempre e la sua esperienza di straordinari successi ma anche di quotidianità fatta di cose semplici, di leggerezza e di felicità. Un messaggio di speranza nella ricerca scientifica e nella possibilità di “stare bene” con se stessi e con gli altri.

Laurea in psicologia, un lavoro da content creator dal 2016, una carriera agonistica ai massimi livelli. Riavvolgendo il nastro, un’infanzia che a un certo punto ha preso una svolta improvvisa…

«Quando ero molto piccola abbiamo scoperto, prima i miei genitori e poi anch’io con il tempo, che ero affetta da una malattia rara ereditaria, la paraparesi spastica, una malattia neurodegenerativa che ha un decorso diverso per ciascuno e che nel mio caso mi ha portato sulla sedia a rotelle. Ma la malattia non mi ha impedito di inseguire le mie passioni e realizzare i miei sogni, anzi mi ha spinta a impegnarmi sempre di più in attività di divulgazione della ricerca scientifica e a portare avanti le battaglie per i diritti delle persone con disabilità. Io ho imparato a conviverci e sono stata avvantaggiata dall’esempio di mia mamma, affetta dalla stessa patologia anche se in una forma diversa».

Come è avvenuta la scoperta della sua malattia?

«In sostanza io ho sempre saputo di essere malata, essendo emerso quando avevo tre anni. I miei genitori si erano resi conto che non mi muovevo come avrebbe dovuto fare una bambina di quella età e hanno notato una certa somiglianza con la situazione della mia mamma. Hanno iniziato così a sospettare che ci fosse qualcosa e dagli esami genetici è poi arrivata la conferma che avevo ereditato la malattia».

Lei sottolinea sempre l’importanza della ricerca. Quanto ha pesato nel suo caso?

«Tantissimo. L’analisi del DNA ha evidenziato che c’era una mutazione sia su di me che su mia mamma, ma finché non sono nata io i miei genitori non sapevano che la malattia di mia madre fosse ereditaria. Se ci fosse stata la ricerca, forse già la nonna avrebbe saputo che cosa aveva mia mamma e chissà come sarebbero andate le cose, invece a lei avevano detto che le sue difficoltà erano legate a un problema del parto. Oggi grazie alla ricerca abbiamo molti più strumenti per prevenire e, quando capita, anche per contrastare una malattia rara».

Di pari passo con i progressi della scienza ci sono però aspetti che ciascuno di noi può curare nel quotidiano per favorire la salute e il benessere. La sua esperienza dimostra che anche l’attività sportiva aiuta?

«Il primo motivo per cui mi sono avvicinata allo sport è stato proprio il benessere. Essendo una bambina con disabilità i medici avevano spiegato ai miei genitori che l’acqua è un ambiente che può facilitare: è molto protetto, fa bene, scarica la schiena. L’inizio della mia carriera è stato sicuramente legato al desiderio di stare bene, che poi si è evoluto in qualcosa di diverso».

Ha capito che lo sport era diventato una ragione di vita?

«Quando fai una carriera ad alto livello a volte non è più lo sport in sé che ti porta così tanto benessere perché subentrano anche tante problematiche fisiche correlate, gli acciacchi, i dolori, la fatica. Ma certo per me l’idea del movimento è stata sempre associata al bisogno di stare bene in senso più generale».

Quanto gli stili di vita corretti, penso al movimento ma anche alla sana alimentazione, possono influire sulla vita delle persone? 

«Sono un tema fondamentale. Io insisto sempre tanto sia sul benessere fisico sia su quello psicologico, bisogna prendersi cura di sé in tutte le forme. E non ho timore di dire che occorre farlo ancora di più quando hai una disabilità. Perché comunque abbiamo delle fragilità e quindi è essenziale prendersi cura del proprio benessere. E questo vuol dire stare attenti a vari aspetti ma senza mai essere maniacali».

Come si trova il giusto equilibrio?

«Per quanto riguarda l’alimentazione ad esempio si dovrebbe sempre cercare di mangiare bene, ma ogni tanto ci si può anche concedere qualcosa, senza eccessivi drammi… Per l’attività fisica, si dovrebbe mantenere una certa continuità senza però impazzire se qualche volta non ce la faccio… E può essere d’aiuto un supporto psicologico o comunque è utile cercare di coltivare delle attività che ci facciano sentire bene anche mentalmente. Sono tutti pezzettini che devono stare insieme».

Per lei “stare bene” è anche stare nell’acqua. Ricorda la prima volta in piscina?

«Ho iniziato a nuotare che ero davvero piccolissima, ma le gare sono venute dopo, attorno ai 14 anni».

C’è mai stato un momento in cui ha pensato: “basta, ora smetto”?

«Spesso. Fa parte della carriera dell’atleta. Un aspetto che molto spesso non traspare è che in realtà i momenti difficili degli sportivi a livello agonistico sono quasi di più di quelli belli. Nove allenamenti su dieci sono orrendi. Poi hai quel decimo in cui ti senti fantastico. Ma la costanza è l’ingrediente segreto».

Il nuoto l’ha portata sui podi di tutto il mondo. nove medaglie vinte a livello europeo. Protagonista in tre paralimpiadi, l’ultima a Parigi 2024. A Tokyo 2020 ha conquistato l’argento. Come si concilia con tutto il resto, ad esempio con il lavoro cui tiene tanto?

«Per me il lavoro è in effetti molto importante. Dal 2016 porto avanti l’attività di content creator ma mi sono accorta con il tempo che il mondo della comunicazione mi piaceva anche molto stando dietro le quinte. Ho iniziato allora a seguire per un’agenzia di comunicazione tutti quei progetti che a vario titolo parlano di disabilità, di orientamento sessuale, identità di genere. Mi occupo di tutte le tematiche sociali legate alla Diversity & Inclusion».

E qual è il principale messaggio da lanciare?

«Desidero far capire a tutti che io ho scelto di intraprendere una carriera di atleta, ma cerco anche di lavorare ogni giorno perché le persone con disabilità per vedersi felici e serene non debbano per forza scegliere di emergere in qualcosa, nello sport o in altri ambiti. Il mio impegno quotidiano mira a contribuire affinché possano condurre una vita semplice e appagante potendo vedere riconosciuti tutti i diritti che tutti noi meritiamo. La disabilità va accettata e l’obiettivo per la società deve essere quello di capire e supportare ma non necessariamente di mettere sul piedistallo. La vera inclusione è che le persone con disabilità possano fare tutto ciò che desiderano senza che questo venga enfatizzato».

Ricerca scientifica e cultura: due binari che devono procedere insieme? 

«Assolutamente sì. Più avanza la ricerca, maggiore è la possibilità di trovare cure ma anche soluzioni che possano garantirti una migliore qualità della vita. Ma occorre al tempo stesso insistere sull’aspetto culturale, perché più si parla delle malattie rare, della disabilità, dei diritti delle persone, di inclusione… più insomma c’è facilità a dialogare su tutto più si riesce ad abbattere le barriere che spesso sono culturali».

Lei l’ha vissuto sulla sua pelle?

«Posso fare un esempio: una malattia rara ti mette nella condizione di poterti confrontare con poche persone e ti senti sempre un po’ una mosca bianca. La conoscenza è importantissima, alla fine passa tutto dalla cultura».

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